Il misticismo dantesco di Flannery O’ Connor
Il miglior modo per affrontare l’enorme sfida che una scrittrice come Flannery O’Connor propone ai suoi lettori non sta forse nell’immergersi ex abrupto nelle sue opere più importanti, che a prima vista potranno risultare difficili, bizzarre, persino ciniche, bensì di iniziare dalla corrispondenza che intrattenne fino alla sua scomparsa con tante e variegate personalità, e dal suo “Diario di Preghiere”. Ecco almeno quanto suggerito da William Sessions, scrittore e grande amico della O’Connor che, se in un primo momento rifiutò di scriverne la biografia, vi si rassegnò dopo la scoperta di questo documento, tanto prezioso da definirlo, nella sua intervista a “Tempi” del 2014, “il forziere dell’Isola del tesoro”.
Immergersi nella vita e nei pensieri della O’ Connor potrebbe essere un modo per ristabilire la verità su questa scrittrice novecentesca troppo spesso fraintesa, che attraverso i suoi racconti, ingiustamente definiti “horror” dalla critica – incapace a suo avviso di individuare il vero orrore – cerca soltanto di farci specchiare nella cruda realtà, a costo di dover impiegare i modi più violenti, per portarci con tutta la sua forza in Purgatorio.
Scrittrice cattolica sì, predicatrice mai
Se Flannery O’Connor è ancor oggi considerata capostipite di quel “Southern Gothic” nato come critica sociale dalle ferite della Guerra di Secessione, se la sua opera partecipa della storia della letteratura americana, e se ancora viene apprezzata (o meno) da lettori di ogni estrazione sociale e religiosa, il merito è certo del suo sguardo lontano da ogni puerile manicheismo, il suo rifiuto di farsi predicatrice e di catalogare la realtà secondo gli schemi delle favole per bambini, dove i buoni sono buoni e i cattivi, cattivi.
E infatti non si troverà in questa scrittrice, che sempre rifiutò di essere ritenuta una santa, nessuna traccia di superiorità: piuttosto, addirittura, la tendenza a sottovalutarsi. Non esita a descriversi come una bambina dall’aspetto piuttosto ingrato, dall’aria di chi vuole essere lasciato in pace. Nemmeno si vanta dei suoi scritti, ma del film che la mostra mentre insegna ad un pollo a camminare all’indietro, e del fatto di essere nata nella stessa città di Oliver Hardy.
“Non voglio essere una codarda che sta con Te per timore dell’inferno”
Nel mezzo della sua breve vita, iniziata nella primavera del 1925, Flannery O’Connor partecipa ad un prestigioso laboratorio di scrittura all’Università dell’Iowa dopo aver vinto una borsa di studio. La giovane scrittrice ha appena iniziato il suo primo romanzo “La Saggezza del Sangue”, e si trova catapultata dalla nativa Georgia in una dimensione del tutto diversa, dove ha sì l’occasione di confrontarsi a figure che segneranno la poesia statunitense, come Robert Lowell e Elizabeth Bishop, e con cui stringerà un rapporto di amicizia duraturo, ma anche, e soprattutto, col diffuso scetticismo del Nord verso il sacro.
Fervente cattolica cresciuta in una famiglia di origine irlandese, Flannery resiste però alla tentazione di crearsi una campana di vetro nella quale proteggersi dalla dura realtà che la circonda. Al contrario, si apre onestamente ai propri dubbi, ammettendoli: “la mia mente non è forte. È preda di ogni sorta di cialtroneria intellettuale. Non voglio che sia la paura a farmi restare nella chiesa. Non voglio essere una codarda che sta con Te per timore dell’inferno”. È in questi anni di messa in discussione radicale delle modalità della fede che inizia la stesura del suo “Diario di Preghiera”, un tentativo per stabilire una comunicazione con Dio, a cui rivolge tra le altre questa preghiera: di consentirle di essere la Sua “macchina da scrivere“.
E, a quanto pare, i suoi desideri vengono esauditi. Con un talento indiscusso scrive, anche per coloro che credono che Dio sia morto, senza nessuna traccia di moralismo. È la grande sfida che lancia a sé stessa e, di rimando, anche ai suoi lettori: immettere nei suoi racconti qualcosa di indicibile, che il lettore crede di afferrare ma che non dura più di un breve lampo, qualcosa che altro non è se non il mistero della grazia divina, capace di turbare chiunque lo scorga.
Gli ostacoli dell’emarginazione
A questa già ardua missione si somma la distanza forzata dalle persone a lei care: un distacco tanto più difficile quanto più la allontana da tutte quelle situazioni concrete, e quotidiane, in cui poteva sperare di raggiungere il cuore della gente a cui era diretto il suo lavoro. Dopo qualche tempo a New York in compagnia di artisti come Sally e Robert Fitzgerald, con cui intratterrà poi una lunga corrispondenza e che cureranno molte delle sue pubblicazioni postume, Flannery è infatti costretta a tornare nella sua casa di Milledgeville, in Georgia, a causa dell’insorgere della LES, una malattia autoimmune comunemente nota come “lupus”, che può risultare in molti casi letale. E’ un morbo a lei noto, che si è portato via il padre Edward quando lei era poco più che adolescente, e che, lo sa bene, la forzerà a sottoporsi a cure invasive.
Ma questa emarginazione non le fa paura, anzi, la conosce bene, lei, che è nata cattolica nel bel mezzo della “Bible Belt” protestante, lei che, in Iowa, ai tempi del primo laboratorio di scrittura, doveva far leggere i suoi racconti dal professore perché altrimenti, a leggerli con il suo forte accento del sud, nessun l’avrebbe presa sul serio.
“La verità non cambia a seconda della nostra capacità a digerirla”
Ed è forse questo senso della realtà, che è stata costretta a sviluppare sin da molto giovane, a darle questa sua urgenza di scrivere, a permetterle di padroneggiare l’arte dei racconti brevi – poiché non può più scrivere lunghi romanzi per paura di non terminarli – in cui ai personaggi basta un lampo per capire qualcosa. Ed è forse questo senso della realtà a darle questa capacità di non indorare mai i suoi racconti. Scrive: “la verità non cambia a seconda della nostra capacità a digerirla”.
E infatti, le sue storie non conoscono il lieto fine. O meglio potremmo dire che il lieto fine non è ciò che crediamo, e risiede nel solo fatto che ogni anima, per quanto difettosa possa essere, sia capace di scorgere la grazia divina, e da qui, scegliere se accettarla o meno. Quando la nonna di “A Good Man is Hard To Find” scorge “un qualcosa” nel fondo dell’anima del “Balordo”, lo svitato che ha appena fatto fuori tutta la sua famiglia, bambini compresi, per un istante, lo accoglie come un suo figlio. Morirà, uccisa da quel suo “bambino”, ma con un sorriso rivolto al cielo. Questa nonna grottesca, bigotta, scritta in modo ironico e caricaturale come molti dei personaggi dei racconti di Flannery O’Connor, antieroi di tutte le età e di tutte le ideologie, questa nonna ha trovato la strada per la redenzione.
Flannery O’Connor scrive questo breve racconto, che darà il titolo alla sua raccolta più famosa, dal fondo della sua Georgia, in una fattoria di nome Andalusia in cui passa i suoi ultimi tredici anni di vita circondata da pavoni, oche, tucani e altri uccelli di ogni genere, svelando un amore incondizionato per la natura. Nulla di sorprendente considerato che, secondo lei, è proprio attraverso la natura che ci si rivela la grazia divina. In “The Displaced Person”, è un pavone a offrire, allo sguardo di chi saprà vederla, questa intuizione legata alla grazia, spiegando le sue ali coperte di migliaia di occhi, come fosse “una mappa dell’universo”.
La grazia si nasconde anche nel fondo delle selve oscure
E non importa se la natura è bella agli occhi degli esseri umani o meno: della prima coppia di pavoni acquisita dalla scrittrice, l’uno aveva un occhio cieco, ed entrambi erano alquanto spennati. Non importa, e le numerose incarnazioni di Cristo Redentore avvengono anche nelle selve oscure. “Ho intenzione di diventare l’Autorità Mondiale sui Pavoni, e spero che una volta o l’altra mi offrano una cattedra alla facoltà di Pollamologia”, dichiara.
Nonostante le sue condizioni fisiche declinino al punto da costringerla a camminare con l’aiuto di stampelle, Flannery continua a dare lezioni e conferenze attraverso il paese. E, fino alla sua scomparsa a soli 39 anni, non smetterà mai di scrivere: oltre ai suoi racconti, c’è una lunga corrispondenza con amici, parenti, e persino ammiratrici segrete. Amicizie e scambi che alimenterà dalla sua cameretta che somiglia, a detta della madre, più ad un pollaio che ad una stanza da letto.
Fino al Purgatorio, costi quel che costi
Flannery O’Connor dedicò la sua vita artistica a quelli che riteneva ciechi, incapaci di vedere la grazia, l’apertura verso la redenzione che porta tutti sulla via del Purgatorio. Che la accettino o meno, non è il suo problema, purché ognuno sappia che ogni anima può incontrarla a patto di abbandonare le proprie posizioni ideologiche e morali e la propria convinzione di agire in buona fede, e sia pronta a mirare la realtà dritto negli occhi, siano essi quelli del Cristo tatuato sulla schiena di Parker, o quelli disegnati sulla coda di un pavone.
E se qualcuno dei suoi personaggi resiste, nonostante i numerosi richiami, lei non esiterà a tracciare forme gigantesche e violente, non esiterà a scuotere brutalmente quell’anima, per fargli vedere la realtà, l’unica che valga, della grazia divina. Farà vedere, ma non spiegherà mai: perché, secondo la O’Connor, “imparare a guardare è la base per l’apprendimento di qualsiasi arte, tranne la musica”.
Fonti:
“La mia amica Flannery O’Connor, la grande scrittrice americana che non smise mai di «perseguitare la gioia»”, Leone Grotti in “Tempi”, 13 luglio 2014.
“Flannery O’Connor, Un Paon pour ange gardien.”, Marie-Claire Pasquier, Les Cahiers du GRIF, n°39, 1988. Recluses vagabondes. pp. 39-48.
Jacques Pothier. Une pascalienne catholique dans le Sud protestant : Flannery O’Connor et la pureté naturelle. Van Ruymbeke Bertrand. Réforme et révolutions : hommage à Bernard Cottret, Editions de Paris, pp.217-226, 2012, 2846211698.
“Carta, penna e inchiostro rosso sangue”, Respinti Marco in “Tempi”, 16 agosto 2001.