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Da Mary Shelley a Elena Ferrante, nel nome dell’uomo: ma anche no!

L’incredibile storia dell’arte sotto mentite spoglie

di Christine P. (o forse no)

L’importanza di avere il nome giusto

Il nome è una cosa importante, questo si sa. Il nostro nome ci identifica, ci rappresenta e, secondo alcuni, plasma il nostro destino (nomen omen dicevano i latini). Il nome è una faccenda così seria che per alcuni – o, più di frequente, alcune – è stato un peso, una catena, una condanna. Parliamo principalmente di donne, che prima ancora erano artiste, e di artiste, che prima ancora erano donne, in una continua danza tra creatività ed emancipazione. Parliamo di donne che nella guerra all’opinione pubblica e al pregiudizio si sono riparate sotto l’egida dello pseudonimo.

I mille nomi delle autrici vittoriane

Emblematico, in questo senso, è George Eliot, pseudonimo che Mary Ann Evans adottò per sfuggire al pregiudizio e allo scandalo, che l’avevano già colpita in seguito alla sua relazione con un uomo sposato. Nella società vittoriana, prendere parte ad una relazione fedifraga era sufficiente a renderti una poco di buono e nessuno avrebbe comprato i romanzi di una poco di buono. Questo senza considerare che i suoi erano romanzi da uomini e non poteva averli scritti una donna, capace solo di scrivere “silly novels” (come lei stessa li definirà nel titolo del suo saggio di critica della scrittura femminile anti-realista: Silly Novels by Lady Novelists).

Ritratto di George Eliot (Mary Ann Evans), Alexandre-Louis-François d’Albert-Durade, 1849-1886

Meno conosciuto è il caso delle sorelle Brontë. Le tre sorelle, infatti, pubblicarono inizialmente i loro romanzi sotto gli pseudonimi di Currer, Ellis e Acton Bell. Ironicamente anche quelli che oggi vengono definiti “libri per ragazze”, tra i quali Cime Tempestose e Jane Eyre, hanno vissuto la loro prima pubblicazione firmati da uno pseudonimo maschile, giacché le donne non erano considerate in grado di scrivere romanzi seri. Similmente, Louisa May Alcott, autrice nota per la tetralogia di Piccole Donne, adottò il nome di A. M. Barnard per scrivere dei testi definiti più maturi. Continuando, in pochi sanno che anche Mary Shelley, la famosissima autrice di Frankenstein, è dovuta ricorrere allo stratagemma dello pseudonimo, pubblicando col nome del marito.

Due esempi di pseudonimi nella contemporaneità

L’algoritmo è evidente: per la società le donne sono in grado solo di scrivere romanzetti poco seri e dalla scarsa importanza. Certo, qualcuno potrebbe giustamente obiettare che quelle elencate sono tutte autrici vittoriane e che i tempi sono cambiati. Tutto corretto, eccetto che i tempi non sono cambiati affatto.

In tempi più recenti, negli anni ’60, Il Buio Oltre la Siepe veniva pubblico da Nelle Harper Lee. La scrittrice statunitense per sfuggire al pregiudizio eliminò il suo primo nome, firmandosi con un più neutro ed ambiguo Harper Lee. Ed ancora, nel 1997, Joanne Rowling pubblicò il primo libro della saga di Harry Potter utilizzando le ormai note iniziali J. K., su richiesta dell’editore Bloomsbury che ritenne l’uso di uno pseudonimo maschile fondamentale affinché il libro vendesse più copie. Queste sono solo le più famose autrici costrette all’uso di uno pseudonimo dall’opinione pubblica. Ma il nostro viaggio attraverso l’importanza del nome non finisce qui.

Tra maternità e paternità

A pensarci, risulta ironica l’idea che a prescindere dal genere di un autore si parli di paternità dell’opera. Ironia che diventa ancora più pungente quando ci si riferisce ad un’opera come “parto della mente”. Certo, sintatticamente è la mente a “partorire” l’opera. Essendo “mente” un lemma femminile, nel grande schema della metafora, ha tutto il diritto “biologico” di dare alla luce un’idea. La vicenda diventa bizzarra però quando poi quella stessa mente “madre” (in quanto ha partorito l’idea) diventa poi “padre” dell’opera. Quasi una transizione obbligatoria ed obbligata da una società che riteneva (e in parte ritiene ancora) le donne incapaci di creare opere raffinate. Questa premessa sul binomio tra paternità e maternità è necessaria a metterci in un’ottica che ci consentirà di comprendere al meglio le seguenti storie di riscatto, a tratti amaramente ironiche.

L’incredibile processo Keane

La prima di queste ha luogo nel clima statunitense degli anni sessanta. Quella che andiamo brevemente ad esplorare è la storia di Margaret Keane, pittrice divenuta estremamente famosa grazie al processo che l’ha vista coinvolta, al punto da diventare il soggetto di un biopic diretto da Tim Burton. La pittrice dei “bambini dagli occhi grandi” (Big Eyes è appunto il nome del film di Burton) non ha avuto un facile approccio al mondo dell’arte e, soprattutto, non ha avuto un facile approccio al matrimonio. Fresca di divorzio, Margaret (ai tempi coniugata Ulbrich) conosce e sposa Walter Keane nel 1955.

Soltanto dieci anni dopo il loro matrimonio finirà in seguito all’appropriazione, da parte di Walter, della paternità – o dovremmo dire maternità – delle opere. Margaret Keane, infatti, era solita firmarsi usando soltanto il cognome. L’uso del solo cognome consentì a Walter Keane di poter approfittare dell’ambiguità della cosa e quindi presentarsi come autore delle opere. La farsa di Walter Keane però trovò un duro ostacolo nel 1970: le accuse che la sua ex-moglie rivolse contro di lui in diretta radio e che lo portano al processo che li ha resi famosi. Un processo, quello dei Keane, che ha dell’incredibile. Infatti, durante il processo, Margaret dimostrò di essere l’autrice delle opere realizzando un dipinto nell’aula del tribunale. Le bastò soltanto un’ora per riappropriarsi della sua maternità artistica.

Margaret Keane (Amy Adams) in Big Eyes, Tim Burton, America, 2014

Il vero nome di C. Daly

Un’altra storia di riscatto, meno incredibile, ma ugualmente iconica, è quella del riscatto post mortem di Caroline Lousia Daly. Pittrice canadese del 1800, Caroline Louisa Daly era solita firmare le sue opere con le sole iniziali (come abbiamo visto fare a molte altre donne nell’arte), portando la critica a ritenere che il suo nome fosse Charles. Un nome maschile, senza alcun dubbio. Nessuna ambiguità, nessun nome neutro che potesse lasciare dubbi sul genere dell’autore: chi ha trovato i suoi dipinti ha dedotto che il suo nome fosse Charles, perché non poteva essere altri che un uomo.

La verità su Caroline Louisa Daly è rimasta celata per due secoli dietro uno pseudonimo che le era stato assegnato a forza. Soltanto nel 2017, secoli dopo la morte di Caroline (avvenuta nel 1893), la critica le ha restituito la maternità delle sue opere, rivelando al mondo che la C di Charles era in realtà la C di Caroline.

Caroline Louisa Daly, circa 1860

Il nome tra gioco e interpretazione

Abbiamo visto come il nome sia stato e sia un potente scudo. Ed abbiamo anche visto come l’ambiguità (voluta o meno) dietro ad un nome possa portare a delle incredibili storie di riscatto. Adesso è il momento di guardare ad un altro aspetto che si cela dietro ai nomi: la giocosità. Una giocosità come la intendono gli inglesi, che col loro to play identificano sia l’atto del gioco che quello dell’interpretazione.

Perché un nome può anche essere un gioco e, primi fra tutti, ce lo dimostrano i poeti che coi nomi ci hanno giocato per secoli. Dai trovatori che giocavano coi nomi delle loro amate ai futuristi che giocavano con le onomatopee, passando per i romantici e i decadenti che vedevano le mistiche correlazioni che correvano tra tutte le cose e giocavano coi loro nomi.

Quando si parla di giocare coi nomi, gli altri grandi maestri di quest’arte sono certo gli attori. Nel nostro caso, gli attori del teatro vittoriano, che dovevano mascherarsi da donne (giacché alle donne non era consentito recitare) e cambiare – anche solo per qualche ora – la loro intera identità. Uomini che per la scena diventavano donne o addirittura, come fantasiosamente ci suggerisce Shakespeare in Love, donne che si mascheravano da uomini per poi recitare il ruolo delle donne sul palco.

George Sand: tra pseudonimo e alter-ego

In questo senso è stato un gioco quello di George Sand. George Sand, più che uno pseudonimo, è stato un vero e proprio alter-ego di Amantine Aurore Lucille Dupine. Scrittrice francese del diciannovesimo secolo, Dupine era già nota per essere una cross-dresser e approfittò dei romanzi scritti a quattro mani col marito Jules Sandeu per creare il suo alter-ego. Il personaggio di George Sand era così vivo nella società dell’epoca, che anche quando Dupine si rivelò i suoi contemporanei continuarono a rivolgervisi utilizzando il suo pseudonimo. Un gioco (anche se gioco è un termine estremamente riduttivo) quello di George Sand che ha coinvolto tutti quanti.

Statua di George Sand (Amantine Aurore Lucille Dupine), Jardin du Luxembourg, Parigi

Uomini nascosti dietro nomi di donne

Facciamo quindi un salto temporale e ritorniamo alla nostra contemporaneità, dove il gioco dei nomi continua, avvolto ancora una volta nell’ironia e nel mistero. L’emblema odierno del gioco bizzarro delle false identità si manifesta nella figura di Elena Ferrante. Elena Ferrante è la famosa penna dietro L’Amica Geniale, la cui identità è ignota. Secondo la critica, dietro al nome di Elena Ferrante potrebbe celarsi lo scrittore Domenico Starnone (un uomo, pensate!) in collaborazione con la moglie Anita Raja.

Un caso simile è quello di Yasmina Khadra. Mohammed Moulessehoul, in arte Yasmina Khadra, è un ex-soldato e scrittore algerino, costretto ad utilizzare uno pseudonimo per sfuggire alla censura. Paradossalmente, l’autore algerino ha scelto per i suoi scritti uno pseudonimo femminile – il nome di sua moglie, “donatogli” da lei -, pur trovandosi in uno stato in cui dilaga una mentalità estremamente maschilista. Questa scelta rende i suoi romanzi, già carichi di significato, ancora più rivoluzionari.

Ripercorrendo questo breve e non esaustivo excursus sugli pseudonimi nella letteratura e nell’arte, fa sorridere pensare al rovescio della medaglia – uomini che si fingono donne – che potrebbe rappresentare il definitivo riscatto dell’arte al femminile.

Yasmina Khadra (Mohammed Moulessehoul), 8 settembre 2018

Bibliografia
Sotto mentite spoglie, RaiCultura: https://www.raicultura.it/letteratura/foto/2022/12/Sotto-mentite-spoglie-a37ec151-a0af-45f7-9107-96530f9e4d86.html
Jennifer Guerra, Come le artiste si sono dovute fingere uomini per secoli per essere prese sul serio, The Vision, 2018: https://thevision.com/cultura/artiste-pseudonimo-maschile/
Costanzo Di Girolamo, I Trovatori, Torino, Bollati Boringhieri, 1989
Harper Lee, To Kill a Mockingbird (Il Buio Oltre la Siepe), USA, J. B. Lippincott & Co., 1960
Mary Shelley, Frankenstein; or, The Modern Prometheus (Frankenstein o il moderno Prometeo), Regno Unito, Lackington, Hughes, Harding, Mavor & Jones, 1818

Filmografia
Big Eyes, Tim Burton, USA, 2014 Shakespeare in love, John Madden, USA, Regno Unito, 1998

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