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Pasolini e Dante: un dialogo sulla redenzione

di Benedetta Solazzo

Premessa: il tema della redenzione nelle opere di Pasolini e Dante

Nel presente articolo indagherò il tema della redenzione all’interno delle opere cinematografiche di Pier Paolo Pasolini, confrontandolo con la Divina Commedia. D’altronde chi meglio di Dante Alighieri ha saputo far luce sulla coscienza umana e i suoi tentennamenti d’animo? Non impressiona, difatti, il legame indissolubile che il regista ha conservato nei confronti di Dante, considerato Maestro e modello letterario d’ispirazione. Entrambi gli autori concepiscono l’espiazione dalle colpe come una battaglia interiore grondante di sofferenze, ricadute e chiaroscuri. Tuttavia, rispetto alla Divina Commedia, per Pasolini – inteso come autore ma anche protagonista della sua storia – questo tortuoso viaggio di espiazione non sempre porta con sé salvezza.

Da questa differenza sostanziale, il tema dell’espiazione viene declinato da due grandi eminenze con una sensibilità ed una prospettiva diametralmente opposte. Per tale ragione, ho deciso di scrivere un articolo in cui l’ordine delle Cantiche è narrato in ottica pasoliniana, invertendone la gerarchia compositiva. La meta finale non è il Paradiso, bensì l’Inferno. Ma non è forse nel momento più oscuro del cammin di nostra vita, nel nostro personale inferno, che l’uomo sa trovare il coraggio per lottare e ottenere il suo spicchio di Paradiso, cercando di ritagliarsi un proprio posto nel Mondo?

Il Paradiso: il Vangelo secondo Matteo

Pasolini e la redenzione dell’Italia


“Solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”, afferma Ernst Bloch in Ateismo nel cristianesimo del pensatore. Nel saggio l’autore sottende un invito implicito ad una riflessione critica ma, al contempo, positiva della religione giudaico-cristiana in una lente marxista, cercando la Rivoluzione nella Bibbia. In risposta alle provocazioni di Bloch, Pasolini cercò di definire lo spartiacque fra rivoluzione e cristianesimo, cercando un modello sacro che trascendesse il clero e i suoi modelli. D’altronde, il Vangelo Secondo Matteo riflette questa visione, distinguendosi per il suo realismo documentaristico, evitando qualsiasi spettacolarizzazione del divino, attraverso l’utilizzo del bianco-nero e di attori non professionisti. Difatti, la scelta di un rivoluzionario antifranchista, dai tratti fisionomici marcati, per il ruolo di Gesù Cristo, fu tutt’altro che casuale.

Il Vangelo secondo Matteo

Pasolini presenta una figura mite ma profondamente indignata dalle ingiustizie subite dai popoli oppressi. Quello che viene raccontato è un Cristo animato dalla volontà di redimere coloro che adoperano il potere come strumento di dominio politico e sociale. Cristo, nel Vangelo secondo Matteo, non è venuto a portare pace ma rivoluzione. Pasolini pur non essendo credente – nel senso tradizionale del termine – è profondamente affascinato dalla figura di Cristo e dal messaggio evangelico. Cristo, per lui, rappresenta il simbolo della rivoluzione contro il dominio dei popoli oppressi e l’urgenza di riconoscere la sacralità negli ultimi.

La cosiddetta fede scandalosa di Pasolini si ravvisa nella volontà di rappresentare Cristo come un uomo in carne ed ossa, vicino ai reietti, ai deboli e alle minoranze. Anche il paesaggio scelto, si sposa con questa visione poiché denso di significati culturali, religiosi e mitologici. Il Vulcano viene adoperato come espediente paesaggistico per simboleggiare il contrasto tra forze benigne e maligne, archetipiche e dialettiche, mortifere e feconde. La desolazione dei luoghi spogli e lunari è dotata di una carica attrattiva invidiabile che rimanda al mondo di Ade e alle crisi interiori dei suoi personaggi, in una continua lotta contro il capitalismo e la modernità che disintegra i valori e la morale umana.

Il paesaggio vulcanico in Pasolini


Per trovare il Cristo più congruo al messaggio che Pasolini voleva trasmettere, furono indetti provini in una modalità insolita. In un’intervista rilasciata sul settimanale “Le ore”, il regista annunciava le riprese del film e l’urgenza di un attore non professionista, dai tratti inusuali, per la rappresentazione del Salvatore. Una pila di lettere arrivò contenente le suppliche dell’Italia popolare. Si legge tra quelle missive: “ho bisogno di lavorare, ho fatto la guerra” o anche “ho sedici anni, sono povero non posso iscrivermi alla scuola di recitazione, lanciatemi voi”. Queste lettere, conservate da Mimmo Frassineti e ispiratrici del documentario Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri – 78 lettere a Pier Paolo Pasolini, riflettono l’Italia dell’epoca, carica di speranza e ingenuità.

Si nota, fra quelle righe di inchiostro, l’ansia generazionale, le difficoltà linguistiche che affliggevano tanto il Sud quanto il Nord, l’urgenza di non essere dimenticati. Pasolini era un’occasione, non tanto per ottenere “popolarità”, ma per essere – almeno una volta – notati dalla società ed essere raccontati da un regista che comprendeva profondamente la società e le sue difficoltà quotidiane. “Si mescolano il bisogno di uscire dalla massa con le prime rinunce alla vita privata, i supplicanti non avevano sovrastrutture, e nemmeno fissazione di fama, volevano solo essere visti da Pasolini e poi attraverso il suo film dal mondo che non li guardava” – afferma Marco Ciriello. Insomma, un Paese che sprigionava tenerezza nella sua fiera umiltà, che poteva essere considerato ignorante, che non aveva grandi possibilità ma sognava comunque di entrare nel fantastico mondo del cinema. Insomma, un Paese che non rinunciava a sognare nonostante tutto.

Pasolini e Enrique Irazoqui


Il Purgatorio:Accattone

L’influenza di Dante nel purgatorio Pasoliniano


Eppure, a mio avviso, il film che più di altri mostra le intermittenze e i tentennamenti di Pasolini dinanzi al Sacro, non è il Vangelo Secondo Matteo né tantomeno quel capolavoro pagano di Teorema, ma il suo esordio da regista, “Accattone” . Con estrema delicatezza, il tema del sacro e del suo funerale vengono celebrati in questo esordio registico. E lo si può notare già dal particolare incipit del film, che si apre con i versi 104-107 del V canto del Purgatorio:
“l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: “O tu del ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ‘l mi toglie”.

L’utilizzo peculiare del corsivo per “lacrimetta” sembra voler preannunciare allo spettatore il tortuoso viaggio del protagonista verso la redenzione. D’altronde Pasolini, tra i vari personaggi di spessore che abitano la Commedia, ha scelto proprio Bonconte da Montefeltro come metro di paragone. Morto di morte violenta nella battaglia di Campaldino, la sua anima viene contesa tra l’Angelo e il Demonio, poiché in punto di morte si pente con una lagrimetta, invocando Maria. L’ira del Diavolo si evince nell’assurdità di non poter trasportare l’anima all’Inferno per una sola lacrima di pentimento. Alla stessa maniera, Vittorio Cataldi, la cui intera esistenza è animata da spinte propulsive contrastanti, continue lotte interiori e realistici chiaroscuri, conduce un viaggio ricco di insidie.

Le parole pronunciate da Bonconte, sfidano la preveggenza e anticipano le tematiche che animano il filone narrativo. Il protagonista Accattone è un magnaccia appartenente al sottoproletariato romano che vive alla giornata, tra semplicità e delinquenza. La presenza della morte incombe fin da subito attraverso una scommessa fatta tra Vittorio e i suoi compari, ovvero gettarsi in piena digestione nel fiume Tevere, luogo dove qualche giorno prima era annegato Barberone. Accattone, tuttavia, riemerge vivo. Il compagno gli rivolge una domanda, che per chi mastica la Divina Commedia fa sorridere: «Tu che dici, chi se l’è preso, er Barberone, Gesù Cristo o il Diavolo?». Anche il fiume, in quanto elemento, gioca un ruolo chiave. Non solo, il ponte è soprasseduto dalla statua di un angelo con una croce che rimanda ad una possibile chiave di lettura di redenzione iniziale, come se Vittorio fosse destinato a pentirsi fin da subito.

Accattone, 1975

Il femminile in Pasolini: tra peccato, colpa e redenzione.

Interessanti sono anche le figure femminili che animano la pellicola. La moglie di Vittorio, Ascenza, è una donna che vive in condizioni di estrema povertà e marginalizzazione. La sua vita è segnata dalle difficoltà quotidiane, dalla necessità di sopravvivere in un ambiente ostile e degradato. La relazione con Vittorio è segnata da continui conflitti e tensioni, frutto delle stesse premesse del loro rapporto. Ascenza, infatti, è una delle vittime del giro di prostituzione di Accattone.

La sua figura è fondamentale per comprendere le dinamiche interiori del protagonista, la sua presenza mette in luce le sue contraddizioni, il suo carattere lascivo e il suo ricadere continuamente nel peccato. Di contro, la seconda figura femminile funge da contraltare alla prima. La vita di Vittorio prende una direzione diametralmente opposta quando incontra Stella. La scelta di questo nome è interessante se consideriamo che la parola “stella” ricorre nella Commedia alla fine di ogni cantica, acquisendo un significato simbolico, di fine o di inizio.

La grande infatuazione del protagonista viene rappresentata come un’odierna Beatrice, tuttavia l’incontro tra i due perde quella solennità e si traduce in chiave ironica; i due si conoscono in una fabbrica di bottiglie, Vittorio le chiede di indicargli la giusta via, non per il Paradiso… ma per un piatto di pasta e fagioli. L’amore sembra spingerlo alla redenzione, ma Vittorio fa fatica a cancellare quelle sette P dalla sua fronte. Il lavoro per poter mantenere Stella è umiliante, i quintali di ferro troppo pesanti, gli scherni dei suoi compari troppo espliciti, e la sua natura viziosa lo porta a costringere Stella a prostituirsi: «Anche tu ce sei cascata… E ancora, no lo sai! / Eh! Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate!», commenta la prostituta Amore parafrasando ironicamente la poetica del Dolce Stil Novo e Dante, nel momento in cui Stella viene lasciata andare nelle braccia di un’acquirente.

In preda alla disperazione e ai sensi di colpa per la scelta presa, Accattone prova a gettarsi nuovamente nel Tevere ma, salvato dagli amici, si adagia sulla riva e si bagna il volto con le sue acque, come Virgilio che deterge il viso di Dante per prepararlo all’ascesa in Paradiso. Ma Vittorio si sporca il volto indemoniato con la sabbia, la colpa di cui si è macchiato non conosce redenzione, lo stato confusionale e la rabbia disperata per l’amore che prova sono tenaglie che lo tengono incollato al suolo.

Accattone sporco di vergogna

Il sogno di Accattone: una preghiera per la redenzione

Le differenze tra Dante e Pasolini

Quella notte, Vittorio è inquieto e sogna. L’atmosfera rarefatta, i compari vestiti a lutto, il gelido silenzio. Si sente: “Accattone è morto”. Incredulo e smarrito in quella selva oscura, confuso e intorpidito così come dal risveglio di un lungo sonno, si dirige alla porta purgatoriale del camposanto e il custode gli urla: «Tu non puoi entrà!». Ma Accattone non cede a quel “no” e decide di scavalcare il cancello dell’ingresso. A questo punto, la regia è sovrana del filone narrativo, la camera indugia sul primo piano di Accattone per poi allargare il campo visivo sulla vallata di Olevano, «dovevo scegliere una vallata che, […] raffigurasse un rozzo e corposo paradiso», afferma Pasolini in un’intervista. L’inquadratura giunge alle spalle del vecchio intento a scavare una fossa nel buio pesto.

“A sor maè, perché nun me la fate un pochetto più in là? Non lo vedete ch’è tutta scura qui la terra?»; chiede Accattone. «Me dispiace, non posso» ribatte il vecchietto; ma Accattone, pregando dice: «Fatemela un po’ più in là, poco poco, per favore, sor maé».
Allora il vecchio si sposta e affonda il piccone nell’asfalto illuminato. Accattone riceve il suo spicchio di paradiso, un misero spiraglio di luce. Accattone prega, prega come Bonconte prega di essere ricordato dalla sua famiglia affinché anche egli possa giungere alla salvezza tanto agognata. Eppure, le tentazioni sono dietro l’angolo, Vittorio si sveglia e compie l’ennesimo furto. Inseguito dalla polizia, cade dalla moto e si schianta. Con gli occhi rivolti verso il cielo, il sole che gli accarezza il viso, sussurra: “mo’ sto bene”. Vittorio muore. Ma a differenza di Bonconte, non gli esce quella lagrimetta. Accattone non si pente, forse perché non ha niente di cui pentirsi, forse perché non ha mai avuto una reale possibilità di potersi pentire. Vittorio muore sì, ma muore da martire sociale.

Come se dietro all’identità di Vittorio si celasse Cristo. In tal modo, pare che Pasolini reinterpreti il messaggio evangelico dell’ultimità, affermando che beati non saranno solo gli ultimi, ma anche gli ultimi sporchi, gli ultimi degradati, gli ultimi costretti a prostituirsi e a far prostituire, gli ultimi peccatori. E se per loro non ci sarà beatitudine, se quella lacrimetta non bagnerà il loro viso, perlomeno avranno avuto una possibilità. D’altronde, nonostante Pasolini abbia negato qualsiasi redenzione per il suo Vittorio, pare impossibile – a mio avviso – non scorgere in quella supplica onirica, in quell’urgenza di luce, una speranza. Forse, seppur nella morte, Vittorio ottiene una “misera luce di coscienza”.
“E chi lo dice che non basti questa «misera luce»? Anche se nell’ultimo respiro, anche se nel contrattare un posto al sole per la propria tomba. Chi lo dice che il desiderio di luce, fino alla fine, ostinato, «accanito e ingenuo come un bambino», non sia esso stesso l’abbrivio della Luce? “ – scrive Daniela Iuppa in Pasolini e Dante / Un desiderio di luce (forse) salva anche un Accattone.
In una continua lotta, allo stremo delle forze, tra il sopraggiungere della morte e la necessità di un piccolo spicchio di paradiso personale.

Accattone, 1975

L’Inferno: Salò o le 120 giornate di Sodoma

Un finale diverso… tra Divina Commedia e Pasolini


Alla proiezione di Accattone nel 1975 in una sala torinese, Pasolini è presente tra il pubblico. La visione del suo film d’esordio – spiega l’autore – è traumatizzante. Le conseguenze del capitalismo e della borghesia rendono Accattone un film tragico poiché denuncia storica della scomparsa del sottoproletariato delle borgate. La Roma di Vittorio Castaldi era degradata e afosa ma conservava una veracità, una veracità che ora è perduta.
“E’ il problema di tutto il mondo contadino, almeno nel Centro-Sud. Sicché nel film, quello che a suo tempo apparve come denuncia si muta ora in interrogativo storico. La parola denuncia fa montare la tempesta, la sala si trasforma a poco a poco in una specie di forno ideologico e inquisitoriale” – afferma Lorenzo Mondo in Poesie, prose e un nuovo film in cantiere. Pasolini ricomincia.

Pasolini in quello stesso anno stava lavorando all’ultimazione della Divina Mimesis, un tentativo di riscrivere la Divina Commedia adottando il modello dantesco per indagare i temi sociopolitici che affliggevano la contemporaneità dell’autore.
«E’ un’idea che risale al 1965, ma finora non sono riuscito a trovare la chiave giusta. Volevo fare qualcosa di ribollente e magmatico, ne è uscito qualcosa di poetico come Le ceneri di Gramsci, anche se in prosa. Per questo, pubblico appena i primi due canti: a un Inferno medioevale con le vecchie pene si contrappone un Inferno neocapitalistico. Ma siamo, per il momento, al mezzo del cammin di nostra vita, all’incontro con le tre fiere, eccetera» – afferma Pasolini. Nonostante la frammentarietà, la volontà del regista di consegnarla all’editore – pochi giorni prima di essere ucciso -, ne testimonia in qualche modo l’importanza simbolica.

Ma l’ispirazione dantesca non si esaurisce nella riscrittura della Commedia. Sempre nel 1975 Pasolini lavora alla sua ultima opera, Salò o le 120 giornate di Sodoma, ambientata nella Repubblica Fascista.
«L’idea mi è venuta da Le 120 giornate di Sodoma, questa specie di sacra rappresentazione mostruosa, al limite delta leggibilità. Mi sono accorto tra l’altro che Sade, scrivendo, pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il libro in tre bolge dantesche. Ma l’idea di sacra rappresentazione peccava di estetismo, occorreva riempirla di altre immagini e contenuti. Quattro nazifascisti fanno dei rastrellamenti; il castello di Sade, dove portano i prigionieri, è un piccolo campione di Lager. Mi interessa vedere come agisce il potere dissociandosi dall’umanità e trasformandola in oggetto».
In tal modo prende forma l’Inferno pasoliniano, con il suo personale Antinferno e i suoi tre Gironi: delle Manie, della Merda, della Morte. La peculiare geografia di Villa richiama il Cocito dantesco. I due ambienti, asettici e freddi, rendono ancora più inquietanti e grottesche le oscenità che vi si praticano e che si susseguono con una schematicità allarmante, sadica e puntuale. Al minimalismo architettonico fa capo il macabro.

Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975

Le tre narratrici della storia sono descritte con humor dai toni cupi, come Dive del teatro che starnazzano e intonano canzonette alla visione dell’orrido. La caratterizzazione pressoché assente delle vittime, a differenza di quanto avviene nell’Inferno dantesco, rende possibile la visione del film, puntando sul distacco emotivo dello spettatore. Per Pasolini, il film è un atto linguistico che trova compiutezza allorquando lo spettatore riesce a ricostruire la relazione tra significato e significante. Da ciò, la volontà di far dialogare elementi dissonanti così da poter produrre un effetto stordente.

Le figure retoriche assumono un’importanza vitale, accumulazione ed iperbole regnano sovrane per portare allo stremo lo spettatore, in un vortice di sdegno e disgusto. L’intero film è un’allegoria che usa ossimori e metafore per creare un effetto stordente. In Salò-Sodoma, le vittime del Potere decidono di attuare una resistenza interna, ribellandosi alla deformazione identitaria. Espediente diventa l’atto sessuale o sentimentale, come ultimo baluardo dell’essere individuo e non strumento al servizio dei gerarchi. Ed è in questa sotto trama di resistenza che gli spettatori intravedono uno “squarcio”, come il pugno chiuso che Ezio leva al cielo.

Enzo, Salò

Il termine “squarcio” trasuda una rara violenza già nella sua etimologia. Ma squarcio può significare anche apertura. Ed è in tale significato che – a mio avviso – risiede la similitudine più simbolica tra Pasolini e Dante. Nel leggere la Commedia, sembra sempre di essere ad un passo dalla verità, ma quando pare di aver afferrato le intenzioni di Dante si aprono davanti a noi altre interpretazioni.

Non è forse uno squarcio verso altre chiavi di lettura, la volontà di non posizionare taluni personaggi nell’Inferno ed altri sì? Basti pensare a Medea, citata frettolosamente e quasi per dovere narrativo. Pare che Dante potesse nutrire una leggera simpatia per la tragica storia di Medea e che per tale ragione le colpe di Giasone si fossero mostrate ancora più grandi. D’altronde, anche il misuratore di violenza cambia registro a seconda del personaggio che Dante vuole trattare. Brunetto Latini non riceve assolutamente lo stesso trattamento di Filippo Argenti, eppure il luogo dove “riposano” le loro anime è il medesimo Inferno. Anche Pasolini, sulle orme del suo Maestro ispiratore, decide di creare uno squarcio, uno squarcio per addentrarsi nella mente ottusa di coloro che ignorano gli orrori quotidiani, magari per indicargli una diversa strada, magari per fargli acquisire solo consapevolezza.

Lo strumento che utilizza è una raccapricciante violenza che si insinua nelle case dei borghesi e ne spalanca le porte. E ancora, dopo la violenza, è lo stesso impiego del corpo che viene sfruttato per attuare un’azione morale. Il potere si nutre della sottomissione dei corpi, del loro deformarsi e smaterializzarsi dinanzi alle autorità. Il corpo che vuole autodeterminarsi nel proprio significato, si mostra spoglio e libero dal moralismo borghese, avvicinandosi alla sua soggettività. Parallelamente, le punizioni dell’Inferno dantesco sono così realistiche da sembrare inflitte a dei corpi in carne ed ossa, che si dimenano e grondano sangue, non a delle anime prive di involucro terreno.

Più di altre opere cinematografiche, è proprio nell’Inferno di Salò-Sodoma che si ravvisa l’urgenza di lanciare un grido disperato alla società, la volontà disperata di ricercare una speranza, una luce nel buio pesto. Nonostante non sia più possibile ottenere salvezza, nonostante ognuno viva nel proprio eterno peccato, non si può restare inermi dinanzi agli orrori. Bisogna destarsi da questo sonno cosmologico e lottare. L’invito di Pasolini, racchiuso nella sua ultima opera cinematografica, è quello di riflettere e acquisire consapevolezza, cercando di stimolare – in un tempo così degradato – una coscienza collettiva e pertanto, una speranza di riscatto attraverso la resistenza.

Salò, 1975

In estrema conclusione, abbiamo discusso di due autori la cui fama – spesso – li precede. Due autori profondamente interconnessi tra loro, immersi nel contesto politico, vittime e al contempo resistenti ad esso, in un certo qual modo entrambi – chi letteralmente, chi metaforicamente – esiliati dalla società. E ancora, due autori che – seppur distanti nel tempo e nel contesto culturale – condividono una visione profondamente critica dei tempi in cui hanno vissuto e che hanno sviluppato un’attenzione acuta per la condizione umana e le sue fragilità.

Ed è in questa predisposizione artistica e d’animo che ravviso il legame indissolubile tra questi due grandi autori. La consapevolezza della criticità dei propri tempi viaggia – nelle loro opere – con la percezione che vi sia, seppur non asfaltata, una strada alternativa, uno squarcio, un “paradiso” o forse solo “una misera luce”. E da ciò, l’urgenza di creare uno spazio poetico dove poter diffondere spiritico critico e consapevolezza, affinché attraverso l’arte si formi una coscienza collettiva che possa minare le logiche corrotte dall’interno e che possa portare tutti noi alla nostra personalissima redenzione.

Se siete interessati all’argomento, vi invitiamo anche alla lettura del seguente articolo:

  • Pasolini&Dante: una Divina Mimesis – https://www.museodivinonapoli.it/2022/01/12/pasolini-dante-una-divina-mimesis/

Bibliografia

  • “Accattone” di Pasolini. Due analisi di Daniela Iuppa e di Giordano Lupi, https://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/accattone-di-pasolini-due-analisi-di-daniela-iuppa-e-di-gordiano-lupi/;
  • Bloch Ernst, Ateismo nel cristianesimo, 2008;
  • Marco Circiello, Pier Paolo Pasolini: cercasi Gesù disperatamente, https://www.avvenire.it/agora/pagine/pier-paolo-pasolini-cercasi-gesu-disperatamente;
  • Daniela Iuppa, Pasolini e Dante, un desiderio di luce (forse) salva anche un Accattone, https://www.ilsussidiario.net/news/cultura/2017/11/15/pasolini-e-dante-un-desiderio-di-luce-forse-salva-anche-un-accattone/792572/;
  • Lorenzo Mondo, Poesie, prose e un nuovo film in cantiere. Pasolini ricomincia, 1975;
  • Marco Andronaco, Salò, o le 120 giornate di Sodoma, https://specchioscuro.it/salo-o-le-120-giornate-di-sodoma/;
  • Adelio Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, 2022;
  • Daniele Onori, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, https://www.centrostudilivatino.it/salo-o-le-120-giornate-di-sodoma-1975-di-pier-paolo-pasolini/;
  • Pasolini ricomincia, un’intervista del 1975, https://www.cittapasolini.com/post/pasolini-ricomincia-un-intervista-del-1975.

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