Noi del Museodivino di Napoli custodiamo minuscole sculture che illustrano scene presepiali e scene tratte dalla Divina Commedia. La tecnica utilizzata dall’artista per la realizzazione di queste opere è assimilabile all’attività dei monaci miniaturisti che apponevano minuscoli disegni a corredo dei libri antichi. Allora vi presentiamo quest‘articolo che racconta la storia della miniatura e la mette in relazione con l’operato di “Progetto Sophia”, che si occupa di individuare il ruolo della donna nell’arte, nella società nella cultura. Quindi, una seconda parte dell’articolo è dedicata a mettere in luce figure femmiili che si dedicarono a quest’attività da sempre attribuita ad uomini.
Buona lettura!
“Mini” non è “piccolo”
La parola “miniatura” è etimologicamente da collegare al minium, un pigmento arancio-rosso. I Romani lo utilizzavano per tingere le lettere iniziali di una pagina scritta. Contrariamente a quello che possiamo pensare oggi, quindi, non nasce per indicare qualcosa di piccolo. Quest’ultimo significato è solo frutto dell’evoluzione di un termine che era strettamente legato al concetto di lettera iniziale.
Non appena sentiamo le parole “C’era una volta” si materializza nella nostra immaginazione la prima lettera miniata, decorata con colori come il rosso o l’oro. Questo perché era costume tipico della pratica della miniatura inserire all’interno dei capilettera una o più storie sulla base del contenuto del testo.
In antichità, i romani usavano la scriptio continua, cioè non separavano le parole l’una dall’altra, ma le scrivevano di seguito. Per indicare il passaggio da una parola all’altra, quindi, erano fondamentali le iniziali, che di solito venivano tracciate più in grande sulla riga. Il passaggio successivo fu quello di iniziare a tingerle di rosso.
Amanuensi e miniatori a braccetto
La miniatura, per cui, a lungo annoverata tra le arti minori, è una pratica che si ricollega fondamentalmente a manoscritti sontuosi e libri di pregio, fatti su commissione per nobili e ricchi mercanti medievali. Oppure dietro ordine di vescovi e diaconi.
Nel Medioevo, l’era di più grande splendore per l’arte miniatoria, in Europa andavano via via formandosi sempre più centri scriptoria ossia quegli ambienti dedicati al lavoro dei monaci amanuensi che avevano un arduo compito: tramandare la conoscenza, trascrivendo in latino tutto ciò che era pervenuto dal mondo greco e rendendo accessibili fonti che fino ad allora erano sconosciute. Al lavoro di trascrizione degli amanuensi si affiancarono poi i miniatori, con il compito di “abbellire” i codici, rendendoli più pregiati. In quel periodo erano in moto delle vere e proprie botteghe, con copisti, miniatori e rilegatori che lavoravano a braccetto per realizzare i manoscritti più lussuosi.
Inizialmente i codici miniati erano ad uso esclusivo del clero, oppure commissionati come doni per re o potenti signori, ma in seguito si sviluppò un vero e proprio mercato. Studiosi, accademici, famiglie nobili, tutti iniziarono a commissionare codici miniati e presto sorsero dei centri specializzati destinati a questo. Ogni centro poteva avere delle caratteristiche specifiche come l’utilizzo di un particolare colore o una tecnica di impaginazione molto precisa, cosa che rende possibile oggi attribuire un codice miniato a un luogo di produzione piuttosto che a un altro.
Bisognava andare all’Università per diventare un miniatore?
I manuali per copisti e per miniatori non esistevano, il mestiere lo si imparava da un maestro facendolo. É proprio in questo periodo che il libro comincia a diventare merce ed è inserito, quindi, in un circuito competitivo.
Non c’erano manuali scritti, o c’era molto poco, perché i segreti del mestiere potevano essere tramandati solo da maestro a allievo.
Noi, oggi, per questo motivo, possiamo solo intuire come si lavorava, attraverso un’osservazione ragionata dei cosiddetti manoscritti incompleti che permettono di capire come si lavorava effettivamente per la realizzazione di questi “libri d’arte”.
Si pianificava sempre la disposizione delle scritte e delle immagini sulla pagina prima che si realizzasse la copiatura, in modo che tutti sapessero quale doveva essere la posizione dei diversi componenti. Questo processo si chiama, in gergo, mis en page, letteralmente “messa in pagina”. Significa che i copisti, nell’andare a ricopiare il testo originale, lasciavano spazi liberi ai margini per consentire ai miniatori di ornare i capilettera o di apporre decorazioni grafiche in un secondo momento, a mo’ di catena di montaggio.
I manoscritti incompleti sono quelli che mostrano ancora questi spazi vuoti, o riempiti solo da schizzi, e sono preziosissimi per quanto riguarda il processo di applicazione delle decorazioni in quello che, da quel momento, bisogna considerare a tutti gli effetti un “oggetto libro
Grazie a loro sono state ricostruite le varie fasi del lavoro minatorio e adesso sappiamo, ad esempio, che la foglia d’oro veniva applicata prima degli altri pigmenti.
Per questo, dietro la creazione di un codice illustrato, un ruolo di fondamentale importanza era quindi da affidare, oltre che all’artista e al committente, anche al cosiddetto concepteur, una persona che conosceva l’opera e ideava il programma iconografico del manoscritto, scegliendo che episodi raffigurare e in che modo. Non si tratta di scelte sempre pacifiche, come potrebbe sembrare, poiché ogni opera di traduzione del testo in immagine implicava necessariamente un grado di interpretazione: il concepteur, insomma, agisce come un filtro, fornendo una prima interpretazione che condiziona necessariamente tutti gli osservatori successivi, anche noi.
Donne con le dita sporche d’inchiostro
Nell’Alto Medioevo, quindi, la scrittura era nelle mani di pochi. Questi pochi di solito erano uomini, sì, ma comunque uomini che appartenenvano a una cerchia ben ristretta: notai, cancellieri e chierici, di solito al soldo di committenti. La produzione e la diffusione di testi, sapere e informazioni erano garantite con efficacia dall’oralità (era costume dettare i testi da trascrivere), e in questo universo anche le donne trovano un posto da protagoniste.
La scrittura era coltivata nei monasteri, che fungevano da luoghi di promozione culturale sia per gli uomini che per le donne. Un monastero era un’unità amministrativa, petanto, non c’è dubbio sul fatto che le badesse e le loro collaboratrici usassero penna e inchiostro quotidianamente tra stesure di registri, libri di conti, cartulari, testamenti e lettere. Anche se i documenti sopravvissuti sono pochi, recenti ricerche hanno fatto luce sul mondo delle copiste, donandoci dei risultati sorprendenti, come per quanto riguarda la copia redatta tra 1130 e 1174 delle Etymologiae e del De rerum natura di Isidoro di Siviglia sulle quali otto copiste donne del convento benedettino di Munsterbilzen, vicino a Maastricht, hanno lasciato il loro nome (la prima di loro si chiamava Gertrut), insieme a un’invocazione affinché Dio potesse liberarle dalle pene e accoglierle in Paradiso. In calce si ritrova anche un anatema verso chiunque avesse tentato di rubare il libro.
Autografi di scrittrici medievali
Un’altra copista di grande importanza fu Ida di Léau, monaca del XIII secolo, che fece il suo ingresso in monastero a soli tredici anni per volontà del padre. Ella si dedicava alla copiatura e alla correzione di manoscritti e di lei viene detto che :
«Avendo sempre tutte le sue facoltà occupate nello scrivere, copiando con attenzione i libri per la Chiesa, correggendo un libro non piccolo, da usarsi nei giorni feriali, nei quali leggono le Lezioni dei Mattutini, appose il suo nome a moltissimi manoscritti, copiati in modo diligentissimo».
Nell’Alto Medioevo è difficile attribuire autorialità a qualsiasi codice manoscritto e miniato. Non era abitudine dei monaci amanuensi firmare il loro lavoro, quindi anche i copisti e i miniatori uomini rimangono perlopiù figure misteriose, senza volto e senza nome.
A partire dal XII secolo, invece, la progressiva consapevolezza dell’autorialità ebbe indubbi riflessi sulla redazione del colophon libraio e due secoli dopo divennero più consistenti anche le attestazioni di manufatti artistici “firmati”.
Per quanto riguarda le donne, non mancarono le copiste di professione che, nei chiostri quattrocenteschi, contribuirono al fabbisogno librario interno o esterno come sostegno economico alla propria comunità. In questa moderna percezione dell’universo femminile possiamo collocare una figura come Battista Montefeltro, famosa per l’abilità nel comporre liriche in latino e per la sua eloquenza. Alla fine della sua vita vestì l’abito di clarissa presso S. Lucia di Foligno con il nome di Geronima e si concentrò sul genere diffuso della lauda jacoponica in volgare. Non solo amanuense, quindi, ma una vera e propria scrittrice del Quattrocento.
Da sempre, quindi, le donne si occuparono di scrittura, nonostante, come sempre, la storia cerchi di nasconderle alla vista.
Donne in miniatura
La rete e i manoscritti medievali sono pieni di immagini di donne intente a dipingere. A dimostrazione del fatto che non solo hanno sempre scritto, ma hanno sempre anche dipinto. Per quanto in numero decisamente inferiore rispetto agli uomini e anche in maniera meno “tracciabile”
Di seguito si elencano alcuni manoscritti che presentano immagini di questo tipo.
Il primo è il De mulieribus claris, di giovanni Boccaccio del 1361, le cui miniature appartengono ad alcune versioni francesi dei primi del Quattrocento. L’opera contiene 106 biografie di donne celebri, anche immaginarie, che Boccaccio scrisse in risposta al De viris illustribus di Petrarca. Da Eva, Atena, Saffo, Didone, Costanza d’Altavilla, le loro storie sono raccontate con l’intento di dare alle donne dei riferimenti e degli esempi. Il codice è pieno di illustrazioni che le ritraggono intente in attività morali come lo studio o la lettura, appunto.
Sono tante anche le figure di pittrici raffigurate nell’opera, come Tamiri, un’artista ateniese del V secolo a. C. figlia del pittore Micone. Plinio la ricorda scrivendo di lei che aveva «disprezzato i doveri delle donne e praticato l’arte del padre». Nel De mulieribus è raffigurata dentro uno studio gotico mentre dipinge una Madonna con bambino. Un’altra artista dipinta intenta ad esercitare la sua arte è Irene, anche lei greca, figlia del pittore Cratino. E poi c’è Marzia, greca trapiantata a Roma, raffigurata mentre lavora al suo autoritratto osservandosi su uno specchio convesso.
Quest’ultima compare anche in altri codici, restituendoci immagini di attrezzi e procedure di un atelier medievale che non avremmo potuto rinvenire in alcun altro modo. Si capisce, quindi, quanto siano preziosi queste pitture.
Donne miniaturiste
Le tre donne appena elencate, però, erano tutte di età classica. E nel Medioevo?
Non mancano certo le donne pittrici, che spesso erano delle miniaturiste. C’era Claricia, monaca tedesca, che in un codice datato al XII secolo avrebbe lasciato anche il suo autoritratto.
C’era Herrade di Landsberg, badessa di Hohenburg che scrisse l’Hortus deliciarum e lo miniò.
C’erano Guda, monaca tedesca che si ritrasse all’interno di un capolettera. Oppure c’era Hitda, badessa miniaturista che si ritrasse mentre offriva il suo codice miniato alla statua di Santa Walburga.
La più famosa, però, resta Ildegarda di Bingen, che visse in germania nel XII secolo. Fu monaca benedettina, ma anche profetessa, medichessa, filosofa, musicista, linguista, artista, cosmologa, poetessa, drammaturga e consigliera politica. Nella sua agiografia si racconta che fosse particolarmente cagionevole di salute e che durante i suoi episodi di malattia ricevesse delle visioni mistico-profetiche. Tenne le visioni segrete per molto tempo, per paura di essere tacciata di stregoneria. Per non disturbare il mondo cattolico con le sue visioni mistiche le venne affiancato il monaco Volmar, incaricato di trascrivere ciò che lei profetizzava. Ildegarda stessa riteneva di non essere una persona intelligente. Seguiva solo la sua voce interiore, che lei chiamava “Luce del Dio vivente”, e che secondo lei era la responsabile di tutto il suo sapere.
All’età di quarant’anni imparò a scrivere e a lei si deve l’invenzione della “Lingua Ignota”, una serie di segni indecifrabili che utilizzava per scopi mistici. La figura di Ildegarda è anche emblematica per la sua posizione in quella che, usando un termine anacronistico, è la questione di genere. Nelle sue scritture si prodigò a convertire l’immaginario negativo rivolto alle donne in un’ottica cristiana forte, paragonando la loro sofferenza a quella di Gesù Cristo. Affrontò anche temi come la sessualità e l’apparato riproduttivo femminile, in particolar modo delle mestruazioni e della menopausa.
In uno dei suoi codici miniati si ritrae in un angolo di una rappresentazione delle stagioni.
Le donne miniaturiste medievali, a differenza di quelle di età classica, non erano figlie d’arte e non avevano una bottega. Lavoravano in convento e si può pensare che l’arte miniatoria fosse da loro concepita come un completamento dell’attività monastica, qualcosa che favoriva la meditazione. Non si ritrassero mai nell’atto di dipingere, perché non era quella la loro professione, ma vollero comunque lasciare la loro immagine nelle loro opere. Una firma d’artista che raccontava l’orgoglio di possedere l’arte del creare immagini.
Bibliografia
- Otto Pacht, La miniatura medievale;
- Vincenzo Scarpati, La divina commedia attraverso le miniature: https://medievaleggiando.it/la-divina-commedia-attraverso-le-miniature/ ;
- Emanuela Pulvirenti, Donne che dipingono nelle miniature medievali: https://www.didatticarte.it/Blog/?p=11837
- Il mondo delle copiste nell’Alto Medioevo: https://venipedia.it/it/folio/il-mondo-delle-copiste-nellalto-medioevo
- Pietro D’Onghia, Memorie di monache copiste, miniaturiste e ricamatrici medievali: https://www.corrierepl.it/2023/01/08/memorie-di-monache-copiste-miniaturiste-e-ricamatrici-medievali/;
- Fara Autiero, Dal testo alle immagini: il sistema di sintesi nelle miniature della Commedia, in La Divina Commedia di Antonio Maria Esposito: tra miniatura, scultura e spiritualità, a cura di Silvia Corsi Andreani