Una svolta negli studi sulle illustrazioni della Divina Commedia
Fino a poco fa interessarsi all’ampio tema della Divina Commedia nell’arte figurativa significava anche tuffarsi in una vastissima produzione iconografica raccolta a malapena in qualche volume, senza guida e con il rischio di perdersi fra i numerosissimi manufatti ispirati al capolavoro dantesco. Due erano allora le raccolte di riferimento: l’Illuminated Manuscripts of the Divine Comedy realizzato nel 1969 dagli storici dell’arte Peter Brieger e Millard Meiss insieme al dantista Charles Singleton e Dante Istoriato: vent’anni di ricerca iconografica dantesca a cura di Corrado Gizzi, fondatore della Casa di Dante in Abruzzo. Ma è soltanto nel 2018 che Lucia Battaglia Ricci, filologa e storica della letteratura ci offre una panoramica completa sul tema col suo Dante per Immagini: dalle miniature trecentesche ai giorni nostri, pubblicato presso Einaudi. Il volume costituisce tutt’ora un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia accostarsi al tema della tradizione iconografica della Divina Commedia, coprendo il vasto arco temporale che parte dal Trecento per giungere fino alle illustrazioni più recenti di un’epoca a noi contemporanea.
La nascita dei grandi personaggi nel nostro immaginario collettivo
Ed è proprio all’interno di questo ricco volume che Lucia Battaglia Ricci individua per la prima volta nella Divina Commedia un elemento che finora non era stato chiaramente nominato. Il capolavoro dantesco è infatti composto di due tipi di racconto: la cosiddetta “storia prima” ovvero il racconto del viaggio del pellegrino attraverso i regni dell’aldilà, e le “storie seconde”, ossia le storie narrate dai diversi personaggi che Dante incontra sulla sua strada. E se tendiamo a ricordare Dante come l’autore che ha mantenuto viva la memoria di storie che, altrimenti, non sarebbero mai giunte a noi, come quella di Paolo e Francesca, di Ugolino, ma anche della stessa Beatrice, Lucia Battaglia Ricci ci porta a considerare che il nostro ricordare questi personaggi come grandi esponenti della Divina Commedia, a volte più grandi ancora del viaggio stesso del pellegrino, è un fatto recente dovuto all’aver loro conosciuti, visti e rivisti nei (numerosi) quadri e nelle (rare) sculture che sono state realizzate a partire dall’Ottocento.
In questo estratto di un’intervista a cura di Silvia Corsi accordataci da Lucia Battaglia Ricci per pubblicazione nel catalogo d’arte La Divina Commedia di Antonio Maria Eposito: tra miniatura, scultura e spiritualità (prevista a breve!), rintracceremo il percorso di quei famosi personaggi nell’arte figurativa. Da Francesca da Rimini al conte Ugolino, capiremo il processo tramite il quale sono passati i grandi personaggi, da pochi disegni sparsi nei manoscritti trecenteschi a opere completamente emancipate dall’opera di Dante, fino ad aquisire in tutto il mondo una fama autonoma, al punto che, come può essere il caso nel Bacio di Rodin, se ne perde addirittura di vista l’origine.
Partirei dalla constatazione che, in proporzione alle opere figurative, esistono pochissimi manufatti scultorei dedicati alla Divina Commedia – con eccezioni molto importanti, che lasciano comunque aperta la questione. Se guardiamo a Michelangelo, ad esempio, le tracce della sua appassionata lettura di Dante (penso anche alla Pietà per Vittoria Colonna) sono ben più esplicite nella pittura che nella scultura. Eppure, come ci ricorda Mandel’štam, molte sono le voci che hanno proclamato la natura “scultorea” dell’opera dantesca: possiamo come lui non essere d’accordo, ma la questione rimane. Come si può interpretare, a suo avviso, questa sproporzione?
È una messa a fuoco interessante. (…) Si potrebbe sospettare che sia stato determinante il peso della tradizione, alla cui origine stanno i manoscritti miniati, ai quali spettava il compito non solo di tradurre in immagini il testo dantesco, ma anche di offrire chiavi per “capire” il testo. E dunque, inevitabilmente, pitture di corredo librario, non opere autonome: illustrazioni, non visualizzazioni, da cui nel corso del tempo dipendono (o con cui nel corso del tempo dialogano) gli artisti che si accingono all’opera nei tempi successivi. Se si leggono gli appunti di Guttuso, di Dalì, di Mattotti ecc. si vede che i “precursori” sono altri pittori: Botticelli, Blake, Doré…
Dalla domanda precedente, introdurrei il tema del rapporto tra parti e intero, fondamentale in tutto lo studio della figurazione della Commedia, che nel caso della scultura trova l’incredibile “esplosione” della Porte de l’Enfer come emblema. Si può dire che essa sia stata l’unico tentativo importante di messa in scultura di un luogo fisico della Commedia, un esperimento che ha prodotto una sorta di fuga dei personaggi: come “il libro non tiene”, anche la porta si scioglie e non riesce più a trattenere i suoi elementi … lo spunto di riflessione qui vuol essere sul tema del rapporto tra parti e insieme, bruciante in tutto il ‘900, e quanto Rodin sia in questo senso un punto di svolta.
Sono del tutto d’accordo con questa riflessione. Direi che il caso “Rodin” dà consistenza scultorea a un processo iniziato nel tardo Settecento, per cui quelle che io chiamo “storie seconde” (ovvero i racconti autobiografici messi in bocca alle Francesche, agli Ulissi, agli Ugolini ecc.) si staccano dal racconto portante, passano a vivere vita propria nei quadri e poi nelle sculture (visualizzazioni, appunto), e facendosi “veicoli” di significati (e valutazioni morali) non necessariamente in linea con quelli che per ogni protagonista di una ”storia seconda” sono fissati in modo rigoroso nel “sistema” Commedia.
Il che trova la sua ragione d’essere dapprima nella temperie culturale pre-romantica e romantica, in cui personaggi e storie danteschi iniziano a vivere di vita propria, piegandosi a diventare veicoli e/o simboli dei valori più diversi, trovando poi piena giustificazione nelle interpretazioni dei critici (basti il nome di De Sanctis prima e, superato il confine del secolo, di Croce, e la sua riflessione su poesia e struttura). Il bacio di Rodin è un caso assolutamente emblematico. Ma a mio avviso la radice prima di questo è da rintracciare nelle “interpretazioni” e trasposizioni visive che dell’Ugolino di Pierino da Vinci danno artisti e fruitori dei “quadri danteschi” nella Londra di fine ‘700-primissimo ‘800.
Mi pare che unendo i fili di questo discorso ci si trovi di fronte a una traccia molto interessante e un po’ paradossale. La scultura occupa una parte quantitativamente minoritaria rispetto alla pittura nella raffigurazione della Divina Commedia, eppure proprio un’opera al limitare della scultura come l’Ugolino di Pierino da Vinci da lei appena ricordato è in certo senso responsabile di come ancor oggi noi vediamo e leggiamo la Divina Commedia! Quest’opera tanto particolare e, paradossalmente, non troppo conosciuta, in cui una “storia seconda” viene raffigurata con intenso pathos psicologico, può essere definita la scintilla da cui rinasce la fortuna di Dante a fine Settecento: di quel Dante che ancor oggi trionfa nell’immaginario collettivo, il creatore dei “grandi personaggi” quali appunto Ugolino, e poi Francesca, e Ulisse. Pierino da Vinci e il suo committente sono dal suo punto di vista degli anticipatori? Era loro intenzione “staccare” la storia dal contesto della pena infernale e farla vivere di vita propria, come accadrà appunto nell’Ottocento? O è forse possibile che intendessero fare di Ugolino un nuovo bassorilievo purgatoriale, un exemplum che noi, nuovi Danti, ci troviamo a guardare?
Nonostante gli importanti lavori di Francis Yates, che già negli anni Cinquanta del secolo scorso aveva ricostruito puntualmente l’impatto che il bassorilievo di Pierino aveva avuto sul “ritorno a Dante” nella cultura del tardo Settecento, l’opera è ancor oggi decisamente misconosciuta, ed è ignorata la pionieristica rilevanza, per la storia della ricezione di Dante in epoca moderna, dell’appassionata produzione di opere a soggetto dantesco attivata proprio da quel bassorilievo nel ristretto gruppo di artisti gravitanti attorno a sir Joshua Reynolds.
Davvero, come lei ha detto, quel bassorilievo è stata una scintilla che ha fatto scoppiare un gran fuoco, ancor oggi attivissimo; un fuoco, si deve aggiungere, favorito dalla peculiare temperie preromantica e la particolare sensibilità di molti degli artisti che per primi sono tornati a tradurre in immagini il poema: di Füssli, in particolare, educato alla lettura della poesia, e dello stesso poema dantesco, da Jacob Bodmer, l’autore del Trattato del meraviglioso nella poesia, frequentatore sia della casa svizzera di Füssli che di quella londinese di Reynolds.
Pierino da Vinci e il suo committente sono dal suo punto di vista degli anticipatori? Era loro intenzione “staccare” la storia dal contesto della pena infernale e farla vivere di vita propria, come accadrà appunto nell’Ottocento? O è forse possibile che intendessero fare di Ugolino un nuovo bassorilievo purgatoriale, un exemplum che noi, nuovi Danti, ci troviamo a guardare?
Non è forse lecito proiettare a ritroso sul bassorilievo prospettive e sensibilità proprie del secolo XVIII. Credo che l’opera si spieghi alla luce della particolarissima congiuntura in cui venne essa ideata. Il committente e proprietario dell’opera fu Luca Martini, inviato a Pisa da Cosimo I come provveditore ai fiumi e fossi per liberare la città dalle acque stagnanti e dal connesso degrado. La puntuale competenza testuale attestata dalla composizione conferma che si deve a lui, noto per gli studi sul testo dantesco e la partecipazione alle attività dell’Accademia fiorentina, il programma iconografico tradotto in realtà plastico-visiva da Pierino.
L’attenzione è focalizzata sulla tragica scena dell’agonia del conte e dei figli il cui pathos affascinerà gli artisti del tardo Settecento, ma nel bassorilievo, come non accadrà invece nei quadri che ne deriveranno, questo motivo si coniuga con una serie di altre immagini tese a visualizzare – tradurre in realtà fisica – la terribile invettiva di Dante contro Pisa: l’Arno in primo piano, chiuso all’estremità dalle isole di Capraia e di Gorgona, alle quali addita l’immagine della Fame personificata in volo sopra il gruppo dei morienti. Il fulcro ideologico non è centrato sul peccato e sulla pena conseguente di Ugolino, del tutto pretermessi nella composizione.
È piuttosto sull’orrore di quell’attesa di morte che stringe assieme l’adulto traditore e gli incolpevoli figli (tema prediletto dagli artisti moderni) e sulla vendetta che, per quel misfatto, ricadrà su Pisa “novella Tebe” (tema invece ignorato dai medesimi artisti). Difficile sfuggire all’impressione che questa focalizzazione sull’Arno chiuso a un’estremità dalle isole e corredato all’altra da una minuscola icona del Marzocco fiorentino sia strettamente legata alla situazione contingente che ha portato il Martini a Pisa, e pensare al bassorilievo come ad un’opera destinata a una fruizione del tutto personale: forse in direzione esemplare, ma anche autocelebrativa.
(…) possiamo dire che, da tempo, nelle opere ispirate alla Divina Commedia il discorso propriamente spirituale sulla salvezza dell’anima sia assente – o forse, come mi pare suggerire questa sua rassegna, che si sia andato trasformando in una riflessione sempre più marcata sulle responsabilità sociali dell’arte. In questo orientamento generale, vorrei anche toccare l’ipotesi modernista che vede nell’arte l’unica struttura ancora in grado di “tenere” il reale, e che non a caso trovò in Dante un supremo “organizzatore”. Dunque non più i testi sacri, ma le opere d’arte stesse diventano il nostro riferimento per leggere e interpretare il caos e la frammentazione dell’essere. Ha notato anche nell’ambito figurativo questa tendenza, e lo ritiene un progetto completamente naufragato o tutt’ora vivo tra gli artisti contemporanei?
Termina forse con Federico Zuccari, che utilizzava i suoi disegni danteschi per insegnare ai suoi allievi a vivere e a disegnare, la lettura continua della Commedia e un suo “uso” sistematico come medium per un’educazione morale e un’esperienza spirituale. Non mi pare invece ambiscano a finalità diverse da una più o meno efficace resa visiva dell’immaginario dantesco illustrazioni sistematiche come quelle di Dorè o, più avanti, di Nattini.
Forse più significativo nella prospettiva che lei qui propone è quanto si osserva con i cosiddetti “quadri danteschi”, andati incontro a un successo veramente travolgente specie in epoca romantica. Il celeberrimo olio “La barca di Dante” di Delacroix, per esempio, consente di capire come in epoca moderna gli artisti non stiano più cercando di dare realtà visiva, o interpretare, un determinato passaggio del testo dantesco, ma tendano a “usare” singole invenzioni dantesche per dare forma visiva a problematiche del vivere o visioni del mondo del tutto personali: a “usare” ad esempio Dante e Virgilio in piedi sulla barca guidata da Flegiàs e attaccata da Filippo Argenti per “capire” e mettere in scena un dramma di natura psichica quale è il conflitto interiore tra il vortice delle passioni e il potere della ragione.
La tendenza a parcellizzare il testo, privilegiando singole storie o singoli eventi e “piegandoli” per dar voce a sistemi etici e/o ideologici “altri”, estremante personali, è ancor oggi attiva, ma, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, la Commedia è sorprendentemente tornata a offrire paradigmi per “raccontare” e interpretare – direi anche “giudicare” – il reale, gli artisti recuperando, ed è dato di grande interesse, proprio la “struttura” del poema dantesco, in forma più o meno estesa e sistematica.
E, infine, quale di tutte le opere figurative ispirate alla Commedia che in occasione del 2021 sono finalmente state esposte al pubblico lei consiglia di non perdere per nulla al mondo?
Quale opera non perdere? La porta di Rodin? I disegni di Zuccari? Il Dante Egerton? I disegni di Blake? Le pergamene di Botticelli? Il Dante Urbinate? Le tele di Incerti? La barca di Dante di Delacroix? Il Paolo e Francesca di Böcklin? Impossibile dire, e poi la scelta è sempre, inevitabilmente, del tutto personale. Quel che invece si può dire è che questo centenario sarà davvero prezioso per la possibilità che offrirà (e sta già in parte offrendo) a tutti noi che ci apprestiamo a uscire dalla clausura imposta dal covid, di vedere, uscito a sua volta dalle sale dei musei, dai caveau delle antiche biblioteche o da collezioni private e in vario modo distribuito nelle infinite mostre organizzate in Italia ed altrove, questo immenso, straordinario patrimonio artistico e culturale.